Tutto il Male di un Fiore, ongoing

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airali^^
view post Posted on 18/1/2011, 16:16     +1   -1




Incessantemente, vicino a me, s'agita il Demonio, e mi vagola dattorno come un'aria impalpabile; io l'inghiotto e sento che mi brucia i polmoni e li riempie d'un desiderio eterno e colpevole.

Conoscendo il mio grande amore per l'Arte prende, qualche volta, le sembianze della più seducente delle donne, e con speciosi pretesti da ipocrita avvezza le mie labbra ai filtri più infami.

Lontano dallo sguardo di Dio, mi porta, ansante, rotto dalla stanchezza, nelle profonde e deserte piane della Noia,
e getta sui miei occhi confusi vesti lordate, ferite aperte, tutto il sanguinoso apparato della Distruzione!

Parigi, 1841


<< Ora basta Charles! Hai arrecato già sufficiente imbarazzo alla tua famiglia. Io - e tua madre con me non dubitare - abbiamo deciso che per il tuo bene sarebbe meglio lasciassi la Francia per qualche tempo. Da Le Havre prenderai la nave per l'India. Lì ti attenderà un mio vecchio compagno d'armi, ti ospiterà per il tempo necessario e ti aiuterà a trovare lavoro e ad ambientarti. Charles...non voglio udire altri pettegolezzi sul tuo conto. Cerca di onorare la tua famiglia.>>

<< Padre, voi mi state chiedendo di affrontare un viaggio di questa portata per qualche sciocco pettegolezzo e qualche piccola perdita al gioco! Non vi sembra assurdo tutto ciò? E voi madre, madre mia, non avete nulla da dire al vostro Charles? E' così dunque? Mi odiate tanto?>>

<< Charles! Non devi pensarlo figlio mio! Io e tuo pa->>

<< Quest'uomo non è mio padre! Sia come volete, partirò. Ma d'ora in poi sarò orfano!>>


Charles voltò la schiena ai propri genitori col volto livido di rabbia, la giacca leggermente sgualcita del completo blu che rendeva il suo aspetto ancora più severo e trasandato.
Sbattè con tutta la ferocia della sua indignazione il portone d'ingresso in legno scuro. Appena fuori dalla prigionia soffocante di quella casa dall'aspetto patetico, sollevò il viso dalla carnagione chiara verso il cielo azzurro cupo. Proprio in quel momento, un accumulo lattiginoso di candidi nembi oscurò il puntino arancionato del sole. Ebbene, era forse il cielo che gli inviava un messaggio? Era dunque vero che il suo tempo in quella fumosa, tossica, arrapante città era finito? Lì v'era tutto ciò che conosceva e quel poco che aveva costruito, senza per'altro molta fatica. La sua indole, la sua indole dannata, gli intralciava il cammino ad ogni passo, impedendogli di divenire quel che il suo patrigno avrebbe voluto fosse. Un asservito, un buon cittadino, un uomo assennato. Lui, il senno, preferiva giocarselo fra le cosce di Marie o alla bisca di quell'orbo di Rochel, non certo in un ufficio dalle pareti muffite. Svoltò a destra, inciampando in un ciottolo lungo la strada coperta da una leggera fuliggine. Lo spettacolo romantico e caotico della Senna, coi suoi artisti di strada e le botteghe chiassose gli strinse il petto in una morsa. Fino a quel momento non gli era importato molto di tutto quello a cui adesso i suoi occhi si abbeveravano. Accarezzò con lo sguardo un cane che abbaiò al suo passaggio; inspirò il profumo dei mazzi di fiori gialli, rosa, rossi, viola di Gabrielle, la riccia fioraia dai capelli bronzei e i seni prosperosi; sorrise nel vedere la caricatura di un passante dal sedere grosso e carnoso ad opera di Manuèl, un vecchio pittore dalla lunga barba bianca e le mani sempre sporche di nero. Quello era il suo mondo, e stava per abbandonarlo.
Camminò lungo il fiume, che scorreva placido, portando con sé tutto il marcio di quella città baciata da Dio e da quest'ultimo castigata. Chi era Dio, dov'era, sapeva dell'esistenza di Charles Baudelaire, uno spiantato scrittore di fortuna che fornicava come un coniglio e si abbandonava con piacere a tutti i vizi da Lui deprecati? Arrivato a quel punto della sua vita, sperava davvero di no. Preferiva che fosse il suo figlio più oscuro a fargli visita, almeno quest'ultimo in quanto a peccati non gli era da meno. Dinnanzi alla sua cornuta figura poteva non sentirsi sgomento per il sudiciume della sua anima. Inoltre, era stanco di sotterfugi ed inganni. Era arrivato ad odiare gli specchi, per il terrore di vedersi riflesso nel nulla della loro superficie, non scorgendo altro che alcuni contorni neri e sbiaditi. Era buffo, si interrogava su Dio quando non sapeva nemmeno chi fosse lui. Esistevano molte e varie etichette, cento e mille modi per definirsi, eppure egli non sentiva di appartenere nemmeno a sé stesso, figurarsi ad un qualche appellativo. Accelerò il passo, il tessuto dei pantaloni che si muoveva in una sorta di strano can can sulle sue gambe lunghe e magre. Sembrava uno scheletro. Uno sparuto scheletro deambulante. Cosa gli era rimasto ormai? Anzi, cosa gli era mai appartenuto? Nulla che valesse la pena ricordare. La Francia, l'India, cosa cambiava. I fantasmi restavano fantasmi in qualunque parte del mondo.

Le Havre, 1841


Il mare era uno specchio. L'infinita distesa azzurrina si esibiva in guizzi spumeggianti di bianca schiuma quando le onde si infrangevano contro le navi all'ancora nel vasto porto di Le Havre. L'odore pungente di pesce e salsedine gli sferzò le narici, le orecchie invase dal garrulo frastuono delle vele sferzate dal vento, dalle strida dei gabbiani e dalle voci sonore dei marinai dalle spalle possenti. Stranamente, nonostante la camicia rossa che spuntava da un nero soprabito, si sentiva a proprio agio in un ambiente che non avrebbe mai definito suo. Il mare esercitava su di lui un selvaggio ascendente, gli ricordava che, anche se non fortunato, era nato libero, e che forse, là fuori, avrebbe potuto finalmente trovare la sua ragione per vivere. Qualcosa che sintetizzasse l'angoscia che aveva sempre provato e la sua divina concezione di Bellezza. Il suo bagaglio era già stato caricato sulla nave e gli era stata assegnata una cabina confortevole, almeno a detta del servitore mandato da sua madre per assisterlo nella partenza. La signora Aupick era davvero così ansiosa di sbarazzarsi di lui? Eppure egli l'aveva sempre adorata. Era così bella sua madre, coi capelli biondissimi intrecciati sulla nuca e il sorriso dolce. Fino a quel momento aveva sempre avuto la certezza che lei gli fosse vicina. Ora si sentiva ancora più smarrito. La sua adolescenza, o come lui la definiva, il suo Purgatorio, era stata costellata da violente liti con il patrigno, che lo riteneva un ragazzo presuntuoso e dedito a questioni poco importanti nella vita pratica. Il suo spirito ribelle, purtroppo, non era riuscito a placarsi del tutto e negli anni addietro rammentava di aver compiuto atti davvero immaturi. Non che a tutt'oggi fosse migliorato, ma almeno soddisfaceva le sue voglie anziché frustrarle.
Ed ecco che ora la vita gli presentava il conto, spedendolo in un paese straniero, dalle sconosciute usanze. Aveva sentito grandi cose sulle Indie, da decenni dominazione britannica. Si diceva fosse stato un popolo barbaro ma straordinariamente ricco, devoto a molteplici divinità, talune dall'aspetto demoniaco. Charles non era un uomo che si affidava molto alle parole d'altri, quanto piuttosto ai suoi occhi ed alle sue orecchie. Poteva dirsi però intrigato massimamente dalle storie dell'occulto e una volta, ebbro di vino e sazio della passione di Lucièn, una prostituta minuta dai lunghissimi capelli ondulati e castani, aveva iniziato a parlarle delle sue strambe idee sulla morte e i demoni. La ragazza allora, mentre carezzava con la mano il suo ventre scolpito nella magrezza, gli parlò della sua maman. Lei riusciva a parlare coi morti e, per pochi soldi, offriva ai suoi clienti la possibilità di parlare coi defunti. Lui allora si era girato sul fianco e, immobilizzando i polsi di Lucièn sopra il cuscino, l'aveva baciata con trasporto, sussurandole col riso nella voce di portarlo da sua madre per assistere a quello strambo rito. Ne era rimasto davvero affascinato e quella stessa notte non aveva dormito, preso com'era da un invasamento poetico degno d'un folle. Era sorta l'alba, che l'aveva visto alla scrivania traballante della sua camera, ancora intento a scrivere freneticamente. Il terrore per le sensazioni di estraneità dal proprio corpo provate quella notte l'avevano tenuto lontano dalla piccola prostituta e da sua madre per parecchie settimane, finchè, placata la paura, non era tornato a sollazzarsi fra le braccia di Lucièn.

<< Signor Baudelaire? Signore?>>

Charles si riscosse dai suoi pensieri e sollevò un poco il bavero della giacca, per proteggersi dal forte vento, che ostacolava persino il volo dei gabbiani.

<< Si Bernard?>>

<< Stanno chiamando i passeggeri a bordo signore, sarà meglio avviarci.>>

<< Si, si. Solo un minuto ancora. Dammi un istante.>>

Charles Baudelaire voltò le spalle al mare. Fissò intensamente tutto ciò che stava per lasciarsi alle spalle. Non pronunciò addii né si profuse in inni alla sua Francia. Lui non le apparteneva, e lei non apparteneva a lui. Ma ogni sasso, albero, casa e foglia gli erano cari. Decise improvvisamente che lì era nato e vissuto e lì sarebbe tornato, per abbandonarsi alla morte. Non c'era bisogno di saluti conditi di calde lacrime. Era solo un arrivederci. Solo un arrivederci.

Haiti, Gennaio 1842

<< Terra! Terra!>>

La voce tonante del marinaio bussò con violenza ai timpani di Charles, svegliandolo da un sonno agitato. Non c'era che dire, la vita di mare non faceva per lui. Era stato malissimo per tutte le settimane del viaggio, lo stomaco perennemente stretto in una morsa, la bocca secca e screpolata per il continuo rigettare. Nonostante la sveglia improvvisa, accolse il significato di quelle grida con gioia. Finalmente avrebbe poggiato i piedi su una superficie stabile. E mangiato qualcosa di decente. Ovviamente col resto dei passeggeri non aveva fatto mostra del suo disagio, era questione d'onore. Si alzò dal giaciglio leggermente umido di sudore e chiamò la cameriera che gli avrebbe portato la tinozza con l'acqua calda. Oltre che dal malessere fisico, il suo corpo era stato tormentato da intensi incubi notturni, che avevano messo a dura prova la sua costituzione già scarna. Quei sogni spaventosi gli sembravano sempre così reali da fargli esplodere il cuore nel petto. All'inizio vedeva solo una fitta bruma, spessa quanto può esserlo una pezzetta di burro. Cercava di avanzare, sforzando lo sguardo nell'oscurità della notte. All'improvviso udiva delle risa. Un timore inquietante si impadroniva di lui, quando vedeva emergere dalle tenebre una sorta di caverna. Più propriatamente la si poteva definire un antro vociante, tanto era il chiasso che ne proveniva. Lui avanzava sempre di più, finchè, arrivato dentro, non affacciava la testa oltre una sporgenza rocciosa per scoprire la fonte di quel gran baccano. E il terrore lo coglieva. Gli si offriva alla vista un banchetto di morte. Cento e più scheletri brindavano con calici colmi di sangue, i teschi dalle orbite vuote fissi in un ghigno agghiacciante. Bevevano e mangiavano, altri duellavano, altri ancora sembravano intenti a fissare qualcosa. Qualcosa di molto divertente. Aguzzava ancora di più la vista, resa più acuta dal senso d'allarme, e vedeva che era un uomo vivo, o almeno vestito ancora di muscoli e carne, col ventre squarciato. Gli scheletri divinavano con le sue viscere, pronosticando il destino dell'umanità. E ridevano, perchè sapevano che in quel quadro non v'era un briciolo di Speranza. Così, tutti felici, si mettevano a ballare, esibendosi in una macabra danza che gli sarebbe rimasta impressa nella mente per sempre.
Si riscosse da quel ricordo, desiderando con tutto sé stesso di poterlo dimenticare.
Bussarono alla porta della cabina e, al suo invito ad entrare, una cameriera robusta e molto alta posò sul lavabo il catino con l'acqua, offrendosi di aiutarlo a radersi.
Quella donna doveva avere all'incirca quarant'anni, circa una ventina più di lui. Le folte trecce castane presentavano qualche filo bianco. Non sembrava di orgini francesi, su questo non aveva dubbi.

<< Voi, come vi chiamate?>> chiese, alzando un sopracciglio castano.

<< Mio nome è Katinka, monsieur>> rispose la donna senza guardarlo.

Sembrava troppo timida per una donna della sua età, e dalla piccola croce che portava al collo dedusse che doveva essere una persona religiosa.

<< Va bene Katinka, aiutatemi pure.>>

Si accomodò sulla sedia di legno leggermente traballante e lasciò che la cameriera si prendesse cura di lui. Le sue mani erano grandi, ma stranamente affusolate, anche se portavano i segni della fatica.

<< Voi non siete francese, vero Katinka? Da dove venite?>>

<< Non muovere troppo monsieur, altrimenti voi taglia.>>

Sembrava non voler rispondere alla domanda, una ritrosia forse dovuta a tristi memorie del passato. Così Charles la incalzò:

<< Mi sembra di avervi fatto una domanda. Quali sono le vostre origini?>>

<< Io... nata in villaggio povero, in Romania. Mia madre mandò via me durante pestilenza, per salvare.>>

<< Una pestilenza? Buon Dio, dev'essere stato orribile. Mi dispiace molto per voi Katinka. Rasatura perfetta, per il resto faccio da solo. Potete andare.>>

<< Si, monsieur.>>

La strana donna uscì dalla stanza, non prima di aver fatto un inchino, goffo per il tentativo della cameriera di non rovesciare l'acqua sporca dal piatto usato per sbarbare Charles.
La curiosità di quest'ultimo era stata sostituita dalla compassione, certo. Ma più che altro, il suo tono sbrigativo era dettato dal fatto che non voleva sentir più parlare di morte, almeno non subito dopo essersi ridestato dal suo incubo ricorrente.
Finì di vestirsi e si avventurò fuori dalla sua cabina, per fare colazione col resto dei passeggeri.
La nave era finalmente entrata a Port-au-Prince, la capitale di Haiti . Navi di tutti i tipi ciondolavano all'attracco mosse dalle onde e un continuo via vai di uomini di diverse razze ed estrazioni girovagava per il pontile, infestando locande piene di alcolici e prostitute.
Tutto sembrava un poco rozzo e come fuori posto in quella vegetazione lussurreggiante. Sarebbero rimasti ad Haiti per una settimana, a Dio piacendo.
Una volta sceso dalla Mari del Sud, si incamminò lungo il pontile, osservando tutto con estrema attenzione. Era tutto un vociare in mille lingue differenti, che però creavano una sorta di strana magia alle sue orecchie, come l'incantesimo di qualche fattucchiera dalla pelle scura.
Stava per entrare in una delle locande dall'aspetto più rispettabile, quando gli si avvicinò un uomo di bassa statura, che a gesti gli disse di seguirlo.
Charles non era uomo da fidarsi a cuor leggero del prossimo, ma l'uomo non gli sembrava pericoloso, per di più non portava con sé nulla che valesse la pena rubare, a parte pochi spiccioli.
Il luogo in cui lo condusse poteva tranquillamente essere considerato una bettola ma vi aleggiava certamente un'atmosfera allegra che, in definitiva, era proprio ciò che lui andava cercando. Vide il gestore offrire un bicchiere di una qualche bevanda all'uomo che l'aveva portato lì e lui capì che forse era proprio quello il suo compito, arrabattare avventori per qualche tazza di rum.
Si accomodò su di una sedia libera, nell'angolino meno chiassoso del locale, e fece cenno a una cameriera di portargli da bere.
Quando era partito da Le Havre aveva pensato che in fin dei conti quella era una bella opportunità di vedere il mondo, di conoscere nuovi costumi, magari a lui più congeniali. Ma da quello che aveva visto finora gli sembrava solamente che ogni luogo fosse uno scorcio beffardo sulla sua vita dissoluta in Francia. O forse era lui che era prevenuto nei confronti del destino. D'altronde, l'indole era la cosa più importante. E lui sapeva bene che la sua non era esattamente predisposta per la placida tranquillità e la bellezza classica.
Sorseggiava svogliatamente il rum, che sembrava essere l'unica bevanda disponibile nella locanda, e accavallò le gambe fissando lo sguardo sull'entrata. Ormai era l'imbrunire, quell'istante di azzurro cupo inesorabilmente ingurgitato dalle tenebre ma che ancora manteneva miracolosamente il bagliore aureo regalatogli dal sole. Le ombre si allungavano, ma il petto in quel momento si sgravava, rasserenando il cuore tumultuoso. L'aria era tiepida pur essendo Gennaio, cosa a cui non riusciva ad abituarsi. Era come se il suo corpo fosse sempre in attesa di qualche ventata gelida che lo intirrizzisse. Iniziò a dondolare con la sedia sul pavimento sporco, assistendo alla scenetta di tre negri che schiamazzavano cercando di convincere un quarto ad aderire ad una specie di orchestrina improvvisata. Non si aspettava granchè, ma quando quello attaccò a cantare rimase stupito dalla bellezza della sua voce. Le labbra scure si incurvavano con maestria, lasciando intravvedere di quando in quando l'interno roseo, mentre con le mani mimava i sentimenti ispiratigli da quella melanconica melodia. E mentre l'uomo raggiungeva una nota particolarmente struggente, Charles la vide. Era appena entrata nel locale, il vestito scollato che non riusciva a contenere la forza ferina di quel corpo florido. I capelli erano nerissimi, proprio come i suoi occhi, e creavano un contrasto squisito con la pelle color nocciola, che sembrava celare al di sotto riflessi perlacei. La massa d'ebano era fissata in cima alla testa in riccioli disordinati che parevano fluttuarle dattorno. Gli occhi erano grandi e leggermente a mandorla, le labbra non erano carnose, ma piccole e ben disegnate, ulteriore segno che era di sangue misto. Si avvicinò al bancone, chiedendo da bere. Nella sua vita aveva conosciuto tante e molte donne, d'ogni colore ed estrazione. Le amava, pur non capendole. Ne apprezzava le fattezze, i vezzi, la preoccupazione per i più piccoli dettagli. Gli piaceva farle ridere felici, ma aveva sempre agito nei loro confronti come uno spettatore esterno, pur traendone tutto il piacere possibile. Questa donna non era la più bella che avesse mai visto, ma lo colpì come nessuna aveva fatto mai. Gli avventori della bettola erano ammutoliti, e i suoi stessi conoscenti le si rivolgevano con deferenza e, se possibile, timore. Abbassavano lo sguardo, non riuscendo a sostenere la vista sensuale di quelle iridi d'ossidiana. Tutto in lei era esotico ed evocava nella mente altrui segnali di pericolo che però soccombevano al più forte desiderio di starle vicino ed inspirarne l'odore selvaggio.
Charles si voltò verso due uomini dall'età indefinibile e pochi denti in bocca, inclinandosi quanto più vicino la loro puzza gli permettesse.

<< Scusate, sapete chi è quella donna?>>

I due ridacchiarono, grattandosi la barba incolta e molto probabilmente infestata dai pidocchi.

<< Si è accorto della nostra Jeanne eh? Dia retta a noi e la lasci stare. Non è donna per lei mio signore!>>

Sorprendentemente, quella donna si voltò proprio verso i due uomini, le narici dilatate e le labbra serrate, come se avesse udito i loro commenti. Cosa del tutto impossibile vista la distanza e la confusione nella bettola.
I due ubriaconi rimasero impietriti, poi si alzarono in tutta fretta e uscirono farneticando dal locale.

<< Dovete stare attento alle amicizie che fate, monsieur. Dimostriamo il nostro buongusto soprattutto nella scelta di chi ci accompagna.>>

Gli sorrise, mostrando una dentatura sana, poi portò le mani ai lati della veste sollevandola leggermente e profondendosi in un inchino aggraziato.

<< Il mio nome è Jeanne Duval, monsieur. Da queste parti mi conoscono tutti, si può dire che io sia un'artista famosa. Conoscono anche il mio carattere impossibile, ecco perchè rifuggono tutti il mio sguardo. Ma si sa, gli artisti di talento sono rinomati per le loro sfuriate.>>

Jeanne lasciò andare i lembi del vestito, che celarono nuovamente alla vista gli stivaletti sporchi di fango. Prima che Charles potesse invitarla a sedersi con lui, però, la donna si voltò, raggiungendo il piccolo palco improvvisato.
Una volta lì, al ritmo della voce di quel negro sorprendente, diede il via ad una danza esoticamente erotica. Le braccia descrivevano strani ghirigori nell'aria, le lunghe unghie che davano alle mani connotazioni ferine. Reclinò la testa all'indietro, mentre i boccoli sfioravano le polverose assi di legno. I seni si sollevavano ritmicamente, mentre i fianchi ondeggiavano sbalzando le pieghe dell'abito lungo. Lo stanzone pieno di marinai, barboni, lavoratori, era saturo di aria viziata e fumi di rhum, il lezzo del sudore degli uomini quasi una patina sulla lingua. Eppure, nemmeno una goccia di sudore scorreva sulla pelle perfetta di quella superba danzatrice, che sembrava avere occhi solamente per Charles.
Arrivò il momento che il repertorio cambiò e svariati avventori iniziarono ad intonare stornelli grettamente maschili. Jeanne, allora, tornò al tavolo d'angolo e, senza una parola, si sedette, afferrando la tazza di rhum di Charles.

<< Allora, ditemi signore, cosa vi porta ad Haiti?>>, disse, fissandolo mentre avvicinava le labbra al legno del bicchiere. Indugiò solo un momento, talmente fugacemente che non sembrò avesse bevuto.

<< Una domanda che esige risposte complesse, mia signora. Spero che la definizione lunga vacanza soddisfi sufficientemente la vostra curiosità.>>

Si raddrizzò sulla scomoda sedia, ravviandosi i capelli sulla fronte spaziosa e leggermente sudata.

<< O, monsieur, sono una donna che difficilmente viene soddisfatta... con così poco. Suppongo, comunque, che lei sia francese, non è forse vero? Le farà piacere sapere che, entro pochi giorni, salperò anche io per il suo bellissimo paese,>> disse, lo sguardo acceso da una luce intensa, << già posso figurarmelo così grande, elegante e pieno di vita! Potrò conoscere tanti onesti gentiluomini e saziarmi... delle loro garbate maniere.>>

L'inflessione che aveva assunto il suo tono aveva un che di ipnotico, le labbra a cuore che si stendevano in un sorriso sornione.

Charles abbozzò un sorriso e, con la mente, tornò subito alle parole che il patrigno gli aveva urlato, quando gli era stato comunicato di dover lasciare Parigi per non disonorare ulteriormente la sua famiglia.

<< Mi creda, madame, lo scenario potrà anche mutare intorno a noi, ciò che non cambia, tragicamente, è la nostra misera natura. Siamo come i gabbiani al porto: combattiamo le correnti, tentiamo di librarci con ogni forza rimastaci in corpo, tutto per qualche misero pesce scappato dalle reti. Ma crede che sarebbe diverso se quei gabbiani volassero più lontano? O non dovrebbero comunque lottare per ottenere il minimo sufficiente alla loro sopravvivenza?>>, si zittì amaramente, sorseggiando in modo svogliato quel rhum tanto forte, il naso importante infilato nella tazza quasi a volerci affogare dentro.

<< Come siete pessimista voi! E con quanto sprezzo parlate della vita che vi è stata concessa! Preferirebbe che i gabbiani non si librassero nell'aria coi loro bianchi corpi? Che le fragranze dei fiori imputridissero le tombe, a rallegrare occhi e nasi che già appartengono al demonio? O magari vorrebbe che ogni uomo o donna vestisse perennemente a lutto, per ricordarci la fatuità dell'esistenza? Tanto vale divenir carogne e sfamare le povere bestie randagie!>> esclamò la signorina Duval, con un gesto altezzoso del mento.

Charles la fissò, affascinato, suo malgrado, dall'alternanza di compostezza e sfrenatezza nel volto e nei gesti di quella straniera. Con un fazzoletto di stoffa che aveva visto tempi migliori si nettò la fronte imperlata, conscio dello sguardo di lei fisso su di sè.

<< Non siete un gentiluomo di molte parole, a quanto vedo,>> sussurrò Jeanne, un alone di divertimento sulle labbra, <<fortunatamente per voi le mie preferenze vanno al tipo taciturno e burbero, che ha un sangue certamente più forte vista la tempra rigida del carattere!>> affermò tra il serio ed il faceto, posando le mani in grembo.

<< Mia signora, sono oltremodo compiaciuto di far parte di quella schiera di uomini che possono destare il vostro interesse,>> le sorrise di rimando Charles, con una filosofica punta di sarcasmo mista ad orgoglio maschile, <<farò tutto ciò che è in mio potere affinchè questa scintilla di interesse da parte vostra non si spenga.>>

<< Quanta sicurezza, monsieur, non credete di avere troppa fiducia in voi stesso?>> lo provocò, le piccole labbra incurvate a mo' di sfida.

<< Che Dio me ne scampi, madame! La fiducia in sè stessi è il primo passo verso l'autocompiacimento, e l'autocompiacimento porta alla soddisfazione, tutte cose che un poeta dannato come me non può permettersi di provare. Dove s'è mai visto, infatti, un poeta felice?>>

<< Suvvia, non temo di sbagliarmi ad affermare che voi abbiate vissuto più che "qualche attimo di felicità". Vedete, sono il vostro fascino, nonchè il vostro naso, a suggerirmelo.>>

<< Ritenete che il mio naso parli? Teoria interessante, avrò piacere di provare ad interrogarlo anch'io, più tardi, ovviamente nella solitudine della mia stanza. Mica che un gentiluomo possa parlare col proprio naso in pubblico.>> disse Charles, punto sul vivo dal discorso, ma comunque intrigato dall'insensatezza di quest'ultimo.

<< Vedete, mio signore, un grande naso, in un uomo, denota una notevole personalità, e ciò porta sempre una grande audacia, soprattutto con le donne. Ammetto che io stessa sto subendo il vostro fascino da intellettuale, o quel che è. Del resto, una donna come me certo non potrebbe reggere alle vostre astuzie mentali.>> si schermì, con gli occhi che chiaramente gli suggerivano di adottare con lei la stessa cautela che avrebbe avuto con una bestia selvaggia.

<< La vostra indole da poeta scapestrato ne risentirebbe eccessivamente se andassimo via da questa bolgia per cercare un po' di refrigerio all'esterno? Le assicuro che le notti, ad Haiti, sono una delle cose per cui val la pena permettersi di provare un po' di gioia.>> gli propose madame Duval, sollevando il vestito per alzarsi dalla sedia traballante.

Era una richiesta ben strana, per tutte le più svariate ragioni sociali. La mente di Charles stava vagliando le eventuali motivazioni della donna ma, benchè la sua logica gli suggerisse mille e più modi in cui Jeanne potesse volerlo truffare, l'istinto di stare in sua compagnia, di osservare la sua pelle priva di imperfezioni, di odorare l'intenso profumo che emanava dal suo intero corpo, di vedere i denti bianchi muoversi fra le labbra color nocciola era enormemente più forte, qualcosa di imbattibile persino per un uomo dalla volontà ferrea, figurarsi per uno come lui.
Così disse: << Con piacere, signorina Duval.>>


L'aria notturna era densa di profumi carichi, tali da far girare la testa a chi passeggiava per lo stradone polveroso. I tacchi degli stivaletti di madame Duval scandivano i secondi che quella strana coppia stava trascorrendo in compagnia. Charles la osservava camminare fieramente, un passo distante, quasi a suggerirgli che se solo avesse allungato la mano, avrebbe potuto afferrarla. Ma, ovviamente, Baudelaire non lo fece: non era nella sua indole cogliere al volo ciò che desiderava intensamente. Come minimo doveva trascorrere qualche settimana in piena agonia, a struggersi con tutto sè stesso per la femmina che gli aveva catturato i pensieri.

<< A cosa pensate, monsieur? Sembrate davvero assorto... avevate detto che col vostro naso avreste discusso in un secondo momento.>>

Jeanne afferrò un lembo del vestito e si volse verso Charles, l'espressione appuntita, il sorriso sornione. I suoi occhi parevano davvero cavità oscure e senza ritorno, incutevano tanta paura quasi quanto erano attraenti. Uno sguardo simile apparteneva a qualcosa di antico, di potente, non ad una donna di sangue misto e con una scarsa preparazione sociale.

Lo sciabordio del mare colorava di malinconia l'eco dei ricordi, pennellandoli di tinte ora calde, ora fredde. Charles tirò nuovamente fuori il proprio fazzoletto, questa volta per schermare il naso da quell'odore così intenso, troppo intenso. Gli stava ottenebrando la mente. Continuò però a camminare, tentando di tenere il ritmo di quella donna.

<< E' quasi innaturale, non è vero?>> il suono della voce di madame Duval lo distolse dai suoi pensieri. << Non le viene da chiedersi perchè mai io voglia abbandonare tutto questo?>> disse, gli occhi rivolti alle stelle, la gola eterea totalmente esposta al suo sguardo. Non v'era nulla di delicato in quella donna, fatta eccezione per la pelle, tutto in lei denotava forza, prestanza, aggressività. Per cui, la vista di quello scorcio di vulnerabilità lo colse impreparato, facendolo fermare.

<< E allora perchè, madame, perchè volete andare in Francia?>> gli chiese, quasi inorridito, pur non sapendo da cosa.

<< O, monsieur Baudelaire, lo saprete, non temete, lo saprete presto...>> le ultime parole cristalline si persero in un sussurro appena accennato.

Erano giunti alla spiaggia, la Luna si stagliava nel cielo, bianca, apparentemente impeccabile, eppure la sua superficie quanti misteri celava! Il riverbero latteo animava ancora di più l'ossidiana dei capelli di Jeanne, rendendoli quasi un'ombra vorticante.

<< Siete un uomo assai affascinante, mio caro Charles, ed io vi ho chiamato a me, vi ho aspettato per tanto, troppo tempo. Non avete udito il mio richiamo per tutta la vostra vita? E ora, finalmente, siete qui.>>

Jeanne Duval distolse gli occhi dalla Luna, per fissarli in quelli azzurri e stanchi del poeta maledetto. Una malia antica avvinghiò le membra stanche dell'uomo, e gli parve infine di aver gettato l'ancora in porto. Una remota parte della sua coscienza era in allarme, alla ricerca di una via d'uscita; d'altronde, quella macchia bianca nella sua anima c'era sempre stata, e sempre lui l'aveva ignorata.

Lentamente la donna gli si avvicinò, nessuna orma nella sabbia al suo passaggio. L'odore del mare, dei fiori tropicali, della stessa terra calda, nulla era, a confronto dell'aroma paradisiaco che spandeva da lei, dalle sue carni. Gli arrivò vicino, cingendogli il collo con le braccia luminose.

<< Mio caro, mio caro...>> mormorava parole senza senso, quasi cantando, le labbra premute sul collo pallido dell'uomo. Inspirò a pieni polmoni l'odore di sapone e sudore, e più a fondo il sentore ferrigno del sangue. Scostò il colletto della camicia inamidata, sfiorando con i denti la carne per nulla morbida dell'ossuto Baudelaire. Poi, scivolando dolcemente indietro col capo, aprì di poco le labbra perlacee, e i due bellissimi canini scesero come bardi mortiferi, allungandosi.

Con le zanne incise la pelle, scompigliandogli nel frattempo i capelli, lunghi sul collo. Il risucchio delle labbra che si abbeveravano alla fonte diretta della vita era stranamente in armonia con la natura circostante. Ogni uccello s'era quietato, il vento soffiava unicamente il corroborante odore del predatore che ha sconfitto la preda.

Jeanne stringeva a sè Charles, ma più con amorevole trasporto che con ferrea determinazione. Il poeta non provava alcuna brama di rifuggire quelle labbra, anzi. Avrebbe voluto che i denti di quella donna affondassero ancor più in profondità dentro di lui, fino a far zampillare il sangue, come da una rossa fontana.

Lei aprì gli occhi e fissò le stelle. Il nutrimento rafforzava la sua immortalità e fissare quei punti luminosi mentre si sentiva così potente aveva un che di... divino.
Arrivò il momento che Baudelaire fu troppo debole per dissetarla ancora senza rischi, così lo fece distendere sulla sabbia, col capo poggiato sul proprio grembo.

<< Dormi amor mio, dormi. Ci aspettano giorni a dir poco intensi...>> gli bisbigliò, baciandogli la fronte spaziosa.


Viaggio di ritorno a Parigi, Gennaio 1842


L'Alcide solcava festosamente le onde, sprazzi di esultanza misti a cali di entusiasmo. Pareva riflettere pienamente l'animo del Baudelaire.
Stava per fare ritorno in Francia, ben prima di quanto avesse previsto, in compagnia di una donna dal sangue misto e dalla natura più sinistra. Non v'erano state opere di convincimento, semplicemente lui sapeva che lei lo voleva al suo fianco a Parigi, per quale motivo non gli era dato sapere.
Si era chiesto come avrebbero fatto a non destare l'attenzione degli altri passeggeri, dal momento che non erano sposati, ma nessuno sulla nave sembrava badare a loro. Tranne Katinka, la cameriera che lo aveva servito anche sulla Paquebot des Mers du Sud e che aveva ovviamente intrapreso il viaggio di ritorno per tornare in Francia. Quella rozza donna era oltremodo terrorizzata da Jeanne e, nonostante sarebbe dovuto essere fra i suoi doveri, non venne mai ad occuparsi di lui, nè del resto lui richiese mai i suoi servizi.
Dal canto suo, madame Duval nelle ore diurne non si faceva mai vedere, teneva le tende ben tirate e si avvolgeva nelle coperte fin sopra la testa. Le notti erano un'altra questione. Spesso, mentre lui riposava il suo fisico oltremodo provato, sentiva la mano di lei che risaliva il suo corpo, le lunghe unghie che gli donavano brividi. Ella non si faceva alcun pudore e lo ammaliava con le sue arti, tanto che Charles aveva ricordi nebulosi del loro tempo insieme. La sua magrezza si era accentuata, come anche il pallore; sembrava un uomo molto più che ventenne.

Era l'imbrunire, e il sole si stava sciogliendo nella massa salina. Sentì un movimento nel letto, segno che Jeanne stava per destarsi. Un crampo di paura, come sempre, gli attanagliò il petto, eppure non fuggì. Uno strano richiamo lo legava a lei, impedendogli di scappare.
Madame Duval aprì piano gli occhi neri, inspirando fortemente l'aria nei polmoni. Si sollevò dal letto, nemmeno un brandello di tessuto a coprire le sue forme. Era una donna statuaria, il corpo scattante come quello di un grande felino, e con la stessa possenza. Si avvicinò al catino con l'acqua, ormai fredda, che lui aveva portato in camera, e sciacquò mani e viso. Si voltò poi verso di lui, i muscoli delle cosce e delle braccia contratti.

<< Amor mio! La tua presenza è gioia per i miei occhi! Vorresti accompagnarmi nel salone? Potremmo ascoltare l'orchestra della nave e consumare una buona cena.>>

Era la prima volta, in giorni di viaggio, che lei gli faceva una richiesta simile. In quel tempo erano sempre rimasti in disparte, a consumare i loro corpi e le loro lingue in una frenesia da folli. O forse folle lo era solo lui. Non aveva provato mai nulla di simile, eppure l'immenso piacere era eguagliato da uno sconforto altrettanto profondo. Jeanne Duval era una donna ben strana, e totalmente diversa da lui, se non dagli umani in generale, nelle abitudini. L'unica cosa che avevano in comune era l'innata asocialità.

<< Certamente Jeanne. Mi sorprende questo tuo desiderio, ma lo esaudisco con piacere.>> le disse, alzandosi dalla sedia e abbandonandovi sopra il libro che stava fingendo di leggere. Prese una camicia pulita e finì di prepararsi con calma; non era un adone, ma per gli sciocchi canoni sociali era passabile.
Jeanne, nel frattempo, aveva indossato uno splendido abito rosso, che metteva in risalto la sua pelle ambrata e i capelli neri. Sembravano il buon vino e la morte che cammina, l'una sotto braccio all'altro.

[...]

Edited by airali^^ - 17/9/2011, 13:53
 
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airali^^
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